Elegante con quella sua tipica andatura a testa alta, bravo nel gioco aereo, tecnico e disciplinato tatticamente: Sergio Santarini è stato un eccellente difensore, bandiera della Roma per tredici stagioni, dal 1968 al 1981.
Troppo spesso dimenticato nonostante le sue 344 presenze in Serie A in giallorosso (a cui vanno aggiunte 70 gare in Coppa Italia e 15 nelle coppe europee), Santarini è stato anche capitano della Roma, ereditando la fascia dall’amico Ciccio Cordova, nel 1976.
Nato a Rimini il 10 settembre 1947, “Santa” è rimasto impresso tra i tifosi romanisti anche per il suo carattere mite fuori del campo, con la sue voce flebile e l’inconfondibile erre moscia. Figlio di un camionista, Sergio Santarini inizia prima a giocare a basket come playmaker per emulare il fratello maggiore cestista, poi a 13 anni si converte al calcio e a 16 già gioca in prima squadra nel Rimini, in Serie C. Stopper e poi libero, oggi si direbbe difensore centrale, viene notato da Italo Allodi, dirigente di spicco dell’Inter, il 20 giugno 1967 quando il Venezia lo schiera, in prestito dal Rimini, per un’amichevole contro il Santos di Pelé.
La formazione veneta perde 1-0, ma il 19enne difensore romagnolo controlla con attenzione il fuoriclasse brasiliano negandogli la possibilità di far gol. Strappato al Venezia dall’Inter, disputa una buona stagione in nerazzurro agli ordini di Helenio Herrera che, quando passa alla Roma nel 1968, lo vuole con sé insieme ad Aldo Bet, compagno di reparto e grande amico di “Santa”, e a Vito D’Amato.
«Il mio impatto con la Capitale fu meraviglioso – ha ricordato anni fa al quotidiano “Il Romanista” – un fotografo ci portò al Gianicolo e col dito ci fece indicare la scritta “Roma o morte”». Santarini inizia come stopper, ma quando l’allenatore franco-argentino esclude il capitano Giacomo Losi, è proprio il 21enne venuto da Milano a rimpiazzarlo nel ruolo di libero. Per uno scherzo del destino entrambi sono nati il 10 settembre: “Core de Roma” nel 1935 e il giovane “Santa” dodici anni più tardi.
Difensore tecnico ed elegante, non velocissimo ma bravo nell’impostare l’azione, Sergio Santarini per dodici stagioni resta al centro della difesa romanista senza incertezze: solo nell’ultimo campionato in giallorosso, nel 1980-81, perde il posto da titolare. Il suo inizio nella Capitale è facilitato da un gol decisivo a due minuti dalla fine contro la Juventus (1-1, il 13 ottobre 1968 allo Stadio Olimpico) che lo fa entrare subito nelle grazie dei tifosi. Abita a via Donatello, nel quartiere Flaminio, insieme al “fratello” Aldo Bet, con cui farà coppia al centro della difesa romanista per cinque anni.
Quella prima stagione in giallorosso si conclude con la conquista della Coppa Italia, raggiunta nella partita vinta 3-1 a Foggia il 29 giugno 1969. «Fu un successo meritato, conquistato dopo una lunga serie di partite – il suo ricordo in un’intervista del 24 maggio 2013 al sito internet della Roma – giocavamo un buon calcio, con Herrera in panchina, Peirò, Capello e altri campioni in campo».
La stagione successiva ha invece come epilogo una finale di Coppa delle Coppe sfumata per il maledetto sorteggio dopo tre pareggi contro i polacchi del Gornik.
Il commissario tecnico azzurro Ferruccio Valcareggi si accorge di Santarini e lo chiama in nazionale il 20 novembre 1971, proprio all’Olimpico, in una partita contro l’Austria valida per le qualificazioni agli Europei. L’incontro finisce 2-2 e Santarini appare nel tabellino della gara per una sfortunata autorete di nuca, su tiro del terzino austriaco Sara. Convocato in svariate circostanze, rivedrà però il campo soltanto un’altra volta, con il romano Fulvio Bernardini in panchina, il 29 dicembre 1974 (Italia-Bulgaria 0-0 a Genova).
Proprio gli autogol sono l’unico suo neo in carriera: ne fa 7 (6 con la Roma), di cui due nei derby (nel 2-2 del 14 marzo 1971 e in occasione del 2-0 per i biancocelesti l’11 marzo 1973) che fatica a dimenticare. Della stracittadina ricorda anche i duelli con Giorgio Chinaglia, anima della Lazio: «Sentiva il derby in un modo esagerato. Era visceralmente antiromanista – ricorda Santarini – per non parlare di Wilson che non perdeva occasione di istigare “Giorgione”. Era capace di dirgli “guarda che Cordova ha detto che sei così e cosà…” quando non era vero niente e Chinaglia ci cascava in pieno. Il derby mi metteva tristezza quando non eravamo né carne né pesce. Stare a un passo dalla retrocessione e arrivare al derby come alla partita della vita mi sconcertava. Avrei voluto stare in testa alla classifica, altro che storie, della Lazio non mi fregava proprio niente».
“Santa” non lega con l’eccentrico Manlio Scopigno, che per sua fortuna rimane pochi mesi sulla panchina romanista nel 1973, e invece ha un ottimo rapporto con Nils Liedholm. «La vera svolta della Roma, a mio avviso, fu quando arrivò Liedholm e cominciammo a giocare a zona – le parole di Santarini al sito web della Roma il 24 maggio 2013 – all’inizio ci fu molto scetticismo intorno a questa scelta, si disse che io e Turone non eravamo adatti per questo sistema, ma non era così. Liedholm non si fece condizionare, ebbe la forza di continuare e di portare avanti un’idea di progresso. Fu un bene non solo per la Roma, ma per tutto il calcio italiano».
Nel 1974-75, con l’allenatore svedese in panchina, la Roma si classifica terza con la miglior difesa del campionato e a 4 punti dalla Juvents campione d’Italia: «Eravamo più forti noi della Juve – sostiene Sergio Santarini nel 2005 – avremmo meritato lo scudetto».
Nonostante il carattere mite non gli mancano personalità e orgoglio: nell’agosto 1973 rompe con il presidente Anzalone, insieme con Cordova, Ginulfi e Liguori, perché vuole un ingaggio più alto tanto da lasciare il ritiro estivo di Salsomaggiore e tornarsene ad allenarsi al Tre Fontane. La frattura si risana, ma le tentazioni di lasciare la Città Eterna si ripresentano: riceve offerte importanti da Juventus (nel ’75), Napoli e Torino (nel ’76) e medita l’addio alla maglia giallorossa. Santarini è peraltro amico di Ciccio Cordova, osteggiato invece da Anzalone che ipotizza a Liedholm la cessione del difensore di Rimini. Il “Barone” risponde però con un no deciso minacciando le dimissioni e così Santarini rimane alla Roma ereditando proprio dall’amico Cordova, nel frattempo passato polemicamente alla Lazio, la fascia da capitano.
Il 19 aprile 1978, con la Roma invischiata nella zona retrocessione, segna a tre minuti dalla fine un importantissimo gol vittoria sul Verona (finisce 2-1), che vuol dire salvezza quasi certa, proprio nel giorno della sua trecentesima gara in Serie A. Nonostante le vicissitudini della squadra giallorossa, Sergio Santarini attraversa uno splendido periodo di forma che lo porta a un passo dal ritorno in nazionale. Per i Mondiali del 1978 però il commissario tecnico Enzo Bearzot gli preferisce, come libero di riserva, il giovanissimo Lionello Manfredonia, oltre a Scirea e Zaccarelli. Una delusione senza spiegazione per il capitano della Roma, che a distanza di anni non ha mai digerito quell’esclusione.
Nel 1979 Dino Viola assume la presidenza del club capitolino, torna in panchina Nils Liedholm e viene acquistato “Ramon” Turone, libero come Santarini. Per il capitano sembra venuto il momento della panchina e invece l’allenatore svedese si inventa un modulo con due liberi. L’idea della “ragnatela”, il caratteristico gioco a zona di Liedholm, nasce proprio dall’esigenza di sfruttare al meglio le qualità di Turone e Santarini, non più giovani, ma di impareggiabile esperienza e sagacia tattica.
Nel 1980-81 “Santa” perde il posto da titolare per poi lasciare dopo 13 anni la Capitale, nell’estate del’81, per andare a chiudere la carriera nel Catanzaro. Si toglie però due belle soddisfazioni vincendo altrettante Coppe Italia (nell’80, quando solleva il trofeo da capitano, e nell’81), entrambe contro il Torino, ai rigori e trasformando in ambedue le finali il tiro dagli undici metri. Nella seconda occasione Liedholm lo fa entrare al posto di Turone all’ultimo istante dei supplementari proprio in vista dei penalty. Lui è scontento del ruolo marginale che gli è stato affibbiato, ma compie il suo dovere senza esitazioni, all’ultimo impegno ufficiale con la sua Roma.
Gioca altre due stagioni in Serie A nel Catanzaro, poi torna in giallorosso come allenatore della Primavera (nel 1984-85, tra i suoi allievi ci sono Di Livio e Impallomeni) e come vice di Carlos Bianchi (nel 1996-97). Difende Totti, che l’allenatore argentino vorrebbe mandare in prestito alla Sampdoria, ma resta deluso soprattutto quando Bianchi viene esonerato e il presidente Franco Sensi gli preferisce Ezio Sella come vice del rientrante Liedholm: «Non sono disposto a fare il vice di Sella – le parole di Sergio Santarini raccolte da “La Repubblica” del 9 aprile 1997 al momento dell’addio – lo dico con amarezza, ma qui a Roma ho perso un anno – le sue parole al momento dell’addio – per sei stagioni sono stato accanto ad Eriksson, pensavo di vivere un’avventura ancora più stimolante, ma con Bianchi non ho potuto svolgere neanche la millesima parte del lavoro fatto con Sven».
Continua ad allenare per un po’ (nella sua carriera in panchina ci sono anche Almas Roma, Vigor Lamezia, Ravenna e Modena oltre agli incarichi come secondo di Eriksson nella Sampdoria e nella Fiorentina), poi se ne torna nella sua città natale, arrivando nel 2016 a ricoprire la carica di presidente del Rimini Football Club. Non dimentica mai però il suo amore per la maglia giallorossa, diventata una seconda pelle: viene inserito nella Hall of Fame della Roma e deve combattere, alla soglia dei 70 anni, anche qualche problema di salute. Il ricordo degli anni nella Capitale continua a scaldargli il cuore: «Ho amato Roma e la Roma – dice ripensando a quei tempi – ogni anno molte società mi chiedevano di andare a giocare con loro, ma ho sempre rifiutato».