Il 4 giugno 1989, per il colori giallorossi, resterà per sempre legato all’uccisione di Antonio De Falchi, 18enne tifoso romanista barbaramente aggredito e ammazzato in occasione di un Milan-Roma di campionato. Agli atti di quel delitto resta un colpevole condannato per omicidio preterintenzionale, ma in tanti l’hanno fatta franca e molte ombre resteranno eterne su questa tragedia.
Antonio De Falchi è un ragazzo maggiorenne da otto mesi, longilineo, dai capelli lunghi, un bel viso e grande tifoso della Roma. Vive a via di Torre Maura 82, in un quartiere popolare, con la madre Esperia Galloni De Falchi e gli altri sette figli. Dopo la terza media ha lasciato la scuola per iniziare a lavorare come fabbro in una bottega della borgata Finocchio. Papà Enrico, impiegato in un negozio di abbigliamento a piazza Colonna, non c’è più da quasi tre anni: in preda a una crisi di nervi si è suicidato lanciandosi dal balcone del suo appartamento al quarto piano.
Da un po’ di tempo Antonio, che è il più piccolo di sei fratelli e due sorelle, segue la Roma con assiduità, anche fuori casa. Non è un facinoroso, è incensurato, anche se qualche mese prima, durante una trasferta ricca di disordini (razzie di ogni genere, aggressioni e un romagnolo accoltellato) in occasione di Cesena-Roma del 20 novembre 1988, era stato arrestato e poi posto in libertà provvisoria, con altri quattro romanisti, perché accusato di furti e danneggiamenti a bar e negozi. La vicenda poi si era conclusa senza conseguenze penali per lui.
Sabato 3 giugno, in serata, Antonio parte da Torre Maura con alcuni amici e prende un treno notturno a Termini, diretto alla stazione di Milano Centrale e carico di un centinaio di tifosi romanisti. Arrivati nel capoluogo lombardo poco prima delle 9 di domenica mattina, Antonio si stacca dal gruppo insieme a tre amici 17enni, Angelo, Alfredo e Fabrizio, per fare un giro in città: i ragazzi passeggiano nel centro di Milano, visitano piazza del Duomo, Antonio compra una cartolina della celebre cattedrale meneghina e la spedisce alla mamma. Poi, con il tram numero 24, i quattro giovani arrivano in zona San Siro poco prima delle 11.45. Lo Stadio Giuseppe Meazza, all’epoca, è un cantiere per i lavori di ristrutturazione in vista dei Mondiali di Italia ’90.
I quattro tifosi romanisti camminano da soli, nascondendo prudentemente le sciarpe sotto il bomber. Superata piazza Axum, passano non lontano dalla Curva Sud milanista diretti verso la Nord, generalmente destinata ai tifosi ospiti. All’altezza dell’ingresso 16 del Meazza, Antonio De Falchi, Angelo, Alfredo e Fabrizio sono notati da una ventina di supporters milanisti, seduti su alcuni blocchi di cemento armato. «Sono romani», sussurra uno di loro, mentre un altro, con una maglietta bianca, si avvicina chiedendo prima l’ora e poi una sigaretta ad Alfredo con l’intento di comprendere meglio l’accento di Antonio e dei suoi amici. Alla prima domanda Alfredo cerca di imitare l’accento milanese, poi, spaventato e compreso che si tratta di una trappola, sbotta: «Ma che volete? Siamo solo in quattro».
A quel punto il tifoso milanista con la maglietta bianca fa un gesto con la mano agli altri, come a dire “venite”, mentre Alfredo inizia a correre gridando agli amici «scappamo». Angelo, Antonio e Fabrizio corrono verso la stessa direzione, inseguiti dai milanisti, mentre Alfredo si dilegua subito, saltando una recinzione. «Prendilo, prendilo – urlano gli ultras rossoneri – sono romani!». Angelo viene strattonato, ma riesce a liberarsi e a scappare via, Fabrizio è bloccato da un milanista, ma si salva lanciandogli contro un mattone prima di essere fermato da un agente della polizia, Antonio De Falchi invece resta indietro, viene sgambettato, cade a terra, poi contro un cancello e rimane incastrato. Quindi è raggiunto dai suoi inseguitori, una decina di ragazzi, che gli vanno addosso colpendolo più volte con calci e pugni. Antonio riesce ad alzarsi per un attimo, poi viene sgambettato di nuovo e ricade sull’asfalto, colpito a ripetizione. Passano non più di 30 secondi e arriva la polizia del reparto mobile, richiamata dalle grida, mentre gli aggressori si disperdono, tranne qualcuno che resta a guardare a distanza di sicurezza.
Antonio è a terra sull’asfalto, poi prova a rialzarsi aiutato da un agente di polizia che gli dice: «Stai calmo, non ti picchiano più, adesso ci siamo noi; è tutto finito, stai tranquillo». Antonio però è cianotico, fatica a respirare e, mentre l’agente si volta per un attimo, crolla privo di conoscenza, vittima di un attacco cardiaco. Il poliziotto tenta di rianimarlo con il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca, ma non c’è niente da fare. Dieci minuti più tardi arriva un’ambulanza che porta il ragazzo all’Ospedale San Carlo di Milano, dove i dottori provano ancora la rianimazione prima di constatare il decesso. Il medico legale spiegherà che lo sforzo fisico per la corsa e la paura per la violenta aggressione hanno provocato un infarto ad Antonio De Falchi, ucciso a soli 18 anni e mezzo da un assalto vigliacco. Sul corpo del giovane vengono rilevate alcune escoriazioni, soprattutto sulla parte sinistra.
La notizia della morte di De Falchi, certificata intorno a mezzogiorno, si diffonde velocemente e viene battuta dall’Ansa alle 13.58. Milan-Roma si gioca ugualmente alle 16.30, ma i tifosi delle due squadre evitano di intonare cori e ritirano gli striscioni in segno di lutto. A poco conta che la squadra rossonera, fresca di vittoria in Coppa dei Campioni, si imponga per 4-1.
«Me l’hanno ammazzato, Antonio, Antonio, bello mio, bello de mamma. Ma perché? Perché l’hanno fatto? Perché l’hanno fatto?», grida mamma Esperia, 59 anni compiuti il 14 marzo, quando le comunicano la morte del figlio. All’arrivo a Milano per il riconoscimento della salma, la donna, accompagnata da due figli, è sconvolta: «Pulcino, non sei morto, ora ti riporto a casa», dice piangendo.
Mercoledì 7 giugno 1989 Antonio De Falchi viene salutato con una cerimonia funebre nella chiesa di San Giovanni Leonardi a Torre Maura. Sono presenti migliaia di persone tra cui i calciatori della Roma Angelo Peruzzi, Giuseppe Giannini e Sebastiano Nela, il presidente Dino Viola e la formazione dei Giovanissimi giallorossi. Nela, in lacrime, si ferma a parlare con un fratello di Antonio che tiene in mano la maglia numero 3 di Sebino che il giovane tifoso scomparso aveva a casa come un cimelio prezioso, dopo averla presa in trasferta qualche settimana prima, a Como, il 30 aprile 1989. Viola invece abbraccia la mamma di De Falchi alla fine del funerale, facendosi carico delle spese per la cerimonia e la sepoltura al cimitero Flaminio di Prima Porta.
All’esequie manca un delegazione del Milan, ma soltanto perché il questore di Roma ha consigliato di non venire, per evitare tensioni. Intorno alla chiesa non mancano infatti scritte e messaggi minacciosi: «Vigliacchi uscite adesso: ve lo facciamo noi un bel processo» si legge su uno striscione firmato Fedayn. Un ragazzino di 16 anni, fuori dalla chiesa, distribuisce volantini su cui è scritto: «Il prossimo anno colpiremo sia a Roma che a Milano per vendicare la morte del compagno Antonio De Falchi».
Le indagini sull’omicidio di De Falchi procedono velocemente e, a poche ore dalla morte del tifoso giallorosso, il cerchio dei sospettati si restringe a tre tifosi milanisti: Antonio Lamiranda, 21 anni, figlio di un farmacista e studente universitario al secondo anno di Giurisprudenza, Daniele Formaggia, 28 anni, ragazzone che ama il culturismo, lavora alle Poste di piazzale Lugano ed è nientemeno che impiegato nel servizio organizzativo del Milan come membro del gruppo ultras Fossa dei Leoni, e Luca Bonalda, 18 anni, fattorino pony express. Lamiranda, quando viene bloccato dagli agenti, ha ancora avvolta intorno alla mano una cinghia con una grossa fibbia metallica da usare come arma. Il fatto che Formaggia abbia una delega del club rossonero suscita scalpore: al momento di essere fermato viene trovato in possesso di un’autorizzazione con nome e foto per entrare allo stadio prima degli altri e sistemare gli striscioni.
I tre passano la notte in questura, sottoposti a una lunga serie di interrogatori incrociati, insieme a una trentina di altre persone, in gran parte ultras che prendono posto allo Stadio Meazza dietro lo striscione “brasati”: sono tutti giovani che vestono come gli “skinheads” inglesi, capelli cortissimi, jeans e giubbotti neri. La mattina presto del 5 giugno, alle ore 6, il sostituto procuratore della Repubblica Daniela Borgonovo formalizza l’arresto dei tre sospettati per concorso in omicidio. Lamiranda, Formaggia e Bonalda restano in carcere fino al processo che inizia il 20 giugno a Milano.
Il processo per direttissima per l’uccisione di Antonio De Falchi, nato il 4 novembre 1970 e morto il 4 giugno 1989, inizia il 22 giugno. Lamiranda, Formaggia e Bonalda vengono rinviati a giudizio in quanto «imputati del delitto previsto e punito dagli articoli 110, 112 n° 1, 584, 61 n° 1 del Codice Penale per avere commesso, in concorso tra loro ed altre persone allo stato non identificate, facendo parte di un gruppo di tifosi della squadra di calcio Milan che si era riunito per aggredire tifosi della squadra di calcio Roma, convenuti a Milano in occasione della partita Milan-Roma, con atti diretti in danno di De Falchi Antonio, il delitto di lesioni volontarie, colpendo quest’ultimo con pugni e calci, cagionando la morte del medesimo avvenuta per arresto cardiaco conseguente al trauma psichico; con le aggravanti dell’aver commesso il fatto in più di cinque persone e dell’aver agito per motivi futili. In Milano, il 4 giugno 1989». L’accusa principale per i tre tifosi del Milan è, di fatto, omicidio preterintenzionale (articolo 584 del Codice Penale).
Il dibattimento si svolge in un clima di grande tensione, con alcuni ultras di Milan e Inter che assistono al processo e “fanno il tifo” per i tre accusati, che negano ogni addebito e tentano di scagionarsi a vicenda. Sin dalle prime udienze emerge un clima di omertà quasi malavitosa da parte di alcuni testimoni. Esperia, la mamma di Antonio, e i suoi famigliari si costituiscono parte civile con un avvocato pagato dal presidente Viola, ma lamentano una serie di minacce. Per questo motivo vengono messi sotto protezione da una scorta che li segue costantemente nel tragitto tra il tribunale e l’aeroporto di Milano.
La difesa degli imputati prova a sostenere che Antonio fosse malato di cuore, ma l’esame autoptico riscontra soltanto qualche anomalia asintomatica “delle arterie del circolo coronarico”, non una vera patologia. Durante un’udienza la madre di Lamiranda si avvicina al figlio, dietro le sbarre, portandogli un cornetto e un cappuccino mentre la madre di De Falchi sbotta: «Gli fai fare colazione? E io? Che mio figlio l’ho perso».
Il 5 luglio, quando viene ascoltato in aula, Luca Bonalda implora il presidente della quarta corte d’assise di Milano: «Signor presidente adesso ho paura di perdere la mia ragazza, ma so che Dio non mi abbandonerà perché lui crede a me e sa che sono innocente. Prego perché mi aiuti a vivere anche se dovessi rimanere rinchiuso per anni».
Il 13 luglio si conclude il processo di primo grado, disturbato da alcuni ultras milanisti che in aula urlano «romanisti bastardi», tentando di aggredire giornalisti e fotografi. Luca Bonalda viene condannato a 7 anni di reclusione e 50 milioni di lire (equivalenti a 26 mila euro) di risarcimento alla parte civile per l’omicidio preterintenzionale di Antonio De Falchi; Daniele Formaggia e Antonio Lamiranda sono assolti per insufficienza di prove. «A me non sta bene, la giustizia fa schifo. Questi devono pagare perché hanno ucciso mio figlio» dice ai giornalisti mamma Esperia.
Pur condannato, Bonalda, in attesa dei successivi gradi di giudizio, viene rimesso in libertà (dopo quasi 40 giorni di detenzione) perché non ha precedenti penali e perché non è ritenuto un soggetto pericoloso al di fuori del contesto del tifo calcistico. In vista dell’appello il procuratore della Repubblica di Milano Francesco Saverio Borrelli difende il lavoro degli inquirenti, ma ammette che il clima di diffusa omertà tra i testimoni ha impedito di trovare altri responsabili dell’aggressione a De Falchi.
La profonda reticenza è ampiamente denunciata anche nella motivazione della sentenza, in cui il giudice Guido Piffer spiega che Antonio De Falchi è deceduto per un infarto, ma che «la causa della sua morte può essere identificata nella condotta del gruppo di milanisti, che sottopose il ragazzo a un’eccezionale sollecitazione cardiaca, con la quale agì come fattore concorrente l’anomalia cardiaca della quale il ragazzo soffriva». Peraltro il magistrato rileva che «questa anomalia non aveva impedito al ragazzo di tenere una vita assolutamente normale e di svolgere attività sportive senza lamentare disturbi cardiaci e che non gli aveva impedito di superare la visita militare».
In vista dell’appello l’avvocato di parte civile, che tutela la famiglia De Falchi, chiede che il processo venga spostato a Roma, ma l’istanza non ha esito. Il 13 marzo 1992 i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Milano confermano la sentenza di primo grado, condannando Bonalda a 7 anni e assolvendo Lamiranda e Formaggia per non aver commesso il fatto (la formula dubitativa, nel frattempo, è stata eliminata dal nuovo Codice di procedura penale). L’11 dicembre 1992 la Corte di Cassazione rende definitiva la pena di 7 anni di reclusione per Luca Bonalda che, dopo tre anni e mezzo di liberà provvisoria, viene portato in carcere.
Il 14 febbraio 2000 Bonalda viene sorpreso a Milano, nei giardini di via Mario Pagano, e arrestato per spaccio, mentre alcuni suoi compari riescono a fuggire. Gli agenti lo trovano con una pistola Beretta 9×21 e un etto di hashish. Durante la perquisizione nella sua abitazione vengono rinvenuti 7 proiettili, altri 400 grammi di hashish e 7 milioni di lire. Secondo la ricostruzione degli inquirenti il gruppo di Bonalda, scacciato qualche sera prima da alcuni spacciatori marocchini, stava preparando un raid per riconquistare il territorio di spaccio: nascosti dietro ad alcune piante avevano messo tre bottiglie molotov e una dozzina di spranghe.
Il 28 agosto 2017 il colpevole della morte di De Falchi, che ormai ha 46 anni ed è proprietario di un camion-bar all’esterno dello Stadio Meazza (incredibile, ma vero), si reca a casa di un collega e amico brianzolo di 34 anni e gli spara un colpo di pistola a un ginocchio. Alla base del ferimento c’è un debito di 5.000 euro per una partita di cocaina. Le indagini procedono spedite e il 17 settembre Luca Bonalda viene nuovamente arrestato mentre la sua vittima se la cava con una quindicina di giorni di prognosi.
Sono state tante, nel corso dei decenni, le iniziative alla memoria di Antonio De Falchi. Una settimana dopo la sua morte, domenica 11 giugno 1989, la Roma affronta in casa la Fiorentina allo Stadio Flaminio giocando con il lutto al braccio e, prima del match, viene celebrato un minuto di silenzio mentre gli ultras giallorossi gridano «Antonio! Antonio!». In tribuna viene srotolato uno striscione in cui si legge “Antonio sarai sempre nei nostri ricordi”.
Il 25 febbraio 1990, in occasione di Roma-Milan 0-4 allo Stadio Flaminio, gli ultras romanisti espongono lo striscione “Antonio è morto per quella maglia, onoratela”.
Il 14 novembre 1992, in memoria di Antonio De Falchi, viene organizzato un quadrangolare di calcetto, con la partecipazione di una squadra romanista, al palazzetto dello Sport Mario Argento di Napoli.
Il 10 marzo 2002, in occasione del derby vinto 5-1, il tifoso di Torre Maura viene ricordato con un vistoso striscione al centro della Curva Sud, insieme con gli ultras che sono scomparsi da tempo, ma che devono sentirsi a tutti gli effetti “campioni d’Italia”. La commemorazione si ripete anche a Milano, in occasione della finale di ritorno di Coppa Italia del 31 maggio 2003 tra Milan e Roma, quando gli ultras giallorossi srotolano un grande striscione per De Falchi nel settore ospiti di San Siro.
A Torre Maura lo ricordano con una grande scritta bianca: “Antonio De Falchi vive!”. Sotto la giunta di Walter Veltroni, nel 2005, viene intitolato a De Falchi anche un parco, tuttora esistente, costeggiato da via di Torre Spaccata, nel quartiere dove viveva il tifoso ucciso nel 1989.
Nella stagione 2003-04 si forma in Curva Sud il gruppo di ultras “Brigata De Falchi” di Monteverde, sciolto dopo pochi anni, mentre il 14 luglio 2009, a vent’anni dalla morte del tifoso di Torre Maura, il Roma Club Campidoglio e l’associazione di volontari Fase 4 organizzano il Memorial Antonio De Falchi sul campo della Pro Roma.
Durante Roma-Milan 0-0 del 6 marzo 2010 i tifosi capitolini espongono lo striscione “Il significato del ricordo, il peso della memoria… De Falchi presente!”. Il 7 maggio 2011, in occasione di un’altra gara casalinga pareggiata 0-0 con i rossoneri, la Curva Sud espone una grande coreografia con il nome De Falchi scritto in rosso su sfondo giallo.
Il cuore pulsante del tifo romanista si ripete il 3 febbraio 2019, prima di Roma-Milan 1-1, dedicando una bellissima coreografia al tifoso di Torre Maura, con tanti stendardi raffiguranti il suo volto, per ricordare i 30 anni dalla sua scomparsa.
Tra gli striscioni della Curva Sud in suo onore ci sono anche, nel corso degli anni:
“Nulla sarà dimenticato: Antonio De Falchi con noi”
“A difesa del tuo ricordo: Antonio romanista attivo per sempre”
“Caduto per la Roma, i miei ultras mi rendono l’eternità”
Fonti: Notizie Ansa, vari lanci dal 1989 al 2019.
AdnKronos del 30 gennaio 1995.
“Cuori tifosi” di Maurizio Martucci.
“A guardia di una fede” di Vincenzo Patanè Garsia.
“Ultraviolenza” di Diego Mariottini.
“Tutti morti tranne uno” di Diego Mariottini.
“Il Romanista”, numeri vari.
“La Fiera dell’Est” del 16 maggio 2009.
www.asromaultras.org.
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