Un campione rimasto troppo poco in maglia giallorossa: Enrique Guaita ha fatto sognare i tifosi della Roma per due sole stagioni, ma tanto è bastato per rimanere nella storia del nostro calcio. Probabilmente alla leggenda di Guaita (che negli anni ‘3o chiamavano Enrico, all’italiana) ha contribuito anche il suo addio, misterioso e inaspettato. Tanto da farlo passare per traditore e far dannare quegli stessi tifosi che tanto l’avevano amato.
Nato il 15 luglio 1910 a Lucas Gonzalez, nel dipartimento di Nogoyá (Argentina), ala sinistra dell’Estudiantes, in patria lo chiamano “El Indio” per i tratti del volto e la pelle olivastra, ma si guadagna anche l’appellativo di “gentleman”. Si racconta infatti che in una sfida vinta 3-1 dal suo Estudiantes contro il San Lorenzo de Almagro, forse nel 1933, si sia fatto annullare un gol che, istintivamente, ha segnato con un tranello. Guaita, già autore dell’1-0, si trova infatti davanti al portiere del San Lorenzo, Jaime Lema, e lo batte colpendo il pallone con la mano. Il direttore di gara non vede la scorrettezza e convalida il gol, ma José Fossa, capitano del San Lorenzo, tenta l’ultima carta e chiede all’arbitro di parlare con Guaita che tutti conoscono come un uomo onesto. «È vero, ho fatto gol con la mano, la rete va annullata», le parole dell’attaccante dell’Estudiantes all’arbitro che torna sui suoi passi e non convalida il punto.
La Roma lo ingaggia nel maggio 1933 insieme ai connazionali Alejandro Scopelli e André Stagnaro. La trattativa per l’acquisto viene condotta positivamente da Nicolas Lombardo, anche lui argentino e centrocampista giallorosso, che funge da intermediario. Il match d’esordio per i tre nuovi arrivati dal Sudamerica è una memorabile amichevole Roma-Bayern Monaco 4-3, giocata a Testaccio il 15 giugno 1933. Nella Città Eterna Enrique Guaita diventa il “Corsaro nero” e il suo nome di battesimo viene italianizzato in Enrico. L’asso argentino può starsene mezzo nascosto per buona parte della partita e poi piazzare la zampata vincente in un attimo, con un colpo da maestro. E’ un’ala veloce, dal tiro potente, scattante nella sue folate verso la porta avversaria. Il nomignolo salgariano “Corsaro nero” viene fuori facilmente perché la Roma, qualche mese dopo l’arrivo di Guaita, inaugura un’inedita seconda divisa da gioco nera, di seta. I tifosi la vedono per la prima volta il 12 novembre 1933 in una partita casalinga pareggiata 0-0 con il Livorno. Verrà indossata, in campionato, altre dieci volte.
Non è dato sapere quando Enrique Guaita divenga effettivamente il “Corsaro nero”, ma di certo influisce la prestazione superlativa del 15 aprile 1934: la Roma ospita il Genova (dal 1929 al ’45 si è chiamato così, non Genoa come oggi), gioca in maglia nera e vince 3-0 con una formidabile tripletta del suo asso. I gol arrivano tutti nella ripresa dopo che Guaita, a metà del primo tempo, si è spostato dall’ala al centro per l’infortunio del giovane attaccante Balilla Lombardi che, a mezzo servizio, va invece a giocare sulla fascia. La prima rete è realizzata con un gran tiro al volo su assist del connazionale Scopelli. Nell’azione del raddoppio, su passaggio di Costantino, Guaita precede il rossoblù Bonilauri e batte il portiere Amoretti. Il tris infine è firmato su rigore, dopo un fallo di mano di Pratto che para un tiro a rete di Lombardi. Il 26 aprile 1934 Guaita firma addirittura 4 gol (di cui 3 in 5 minuti nel secondo tempo) al Torino, in una gara vinta 6-3 dalla Roma al Filadelfia. In quella prima stagione in giallorosso Enrique Guaita totalizza 14 reti e sostituisce, nel cuore dei tifosi, il grande Rodolfo Volk, andato via da Roma poco prima dell’arrivo dell’argentino.
Torace largo, un po’ tarchiato, capelli scuri e lucidi di brillantina, il “Corsaro nero” si esalta nella seconda stagione giallorossa, quando segna 28 reti in 29 partite giocate, realizzando il record assoluto di gol, tuttora imbattuto, nei campionati di Serie A a 16 squadre. L’allenatore Luigi Barbesino ha la giusta intuizione di farlo giocare da attaccante puro e Guaita lo ripaga segnando con costanza impressionante: doppietta al Brescia (4-0), tripletta al Torino (3-2 fuori casa), doppietta al Livorno (5-1), tripletta all’Alessandria (6-1 fuori casa), tripletta al Napoli (4-0), doppiette ancora a Palermo (5-1) e Pro Vercelli (4-1 fuori casa). Il 30 dicembre 1934, nel Trofeo Cappelli e Ferrania, rifila la bellezza di 6 reti ai tedeschi dei Kickers Stoccarda, battuti per 8-3 dalla Roma. Cinque gol vengono realizzati in appena 21 minuti, tra il 19’ e il 40’ del primo tempo.
La Roma, con 63 reti, conclude la stagione con il miglior attacco del campionato, ma un andamento altalenante non le permette di andare oltre il quarto posto, a 9 punti dalla Juventus campione.
In virtù delle sue origini italiane Enrique Guaita, che ha già alle spalle 2 presenze e un gol nella nazionale argentina (giocherà altre 2 partite nell’Albiceleste nel 1937), viene convocato da Vittorio Pozzo nella squadra azzurra, come oriundo. Il suo debutto è datato 11 febbraio 1934, a Torino, pochi mesi prima del mondiale in programma nel nostro Paese. Di fronte c’è l’Austria che, nello stadio municipale “Benito Mussolini”, è già in vantaggio 3-0 dopo 28 minuti grazie alla doppietta di Karl Zischek e al gol del bomber Franz “Bimbo” Binder. Le speranze azzurre si aggrappano proprio all’ultimo arrivato che, nel secondo tempo, trascina i compagni alla ricerca della rimonta: al 48’ Guaita si procura un rigore che lui stesso trasforma, ingannando il portiere Platzer con una finta. Due minuti dopo, su assist di Cesarini, si libera della marcatura asfissiante degli austriaci e sigla la seconda rete italiana. Il sogno di rimonta è però vanificato dal terzo gol personale di Zischek, che fissa il risultato sul 2-4. Guaita, migliore in campo dei suoi, ha però vinto la sua partita personale conquistando la fiducia del ct Vittorio Pozzo, che lo convoca per i Mondiali. Così il “Corsaro nero” diventa protagonista della cavalcata che porta l’Italia alla conquista del titolo iridato. Realizza in mischia il gol che decide l’equilibrata semifinale di San Siro contro l’Austria e vince il mondiale proprio nella sua Roma, il 10 giugno 1934, dopo la sofferta finale che vede l’Italia battere la Cecoslovacchia 2-1 ai supplementari.
L’avventura italiana e giallorossa si conclude nel volgere di poche ore, il 20 settembre 1935. Il giorno precedente Guaita, Scopelli e Stagnaro, in virtù della loro doppia nazionalità, sostengono la visita militare e vengono formalmente assegnati ai Bersaglieri. I tre però hanno paura: l’Italia è in guerra con l’Etiopia e temono, pur senza reale motivo, di poter essere spediti al fronte. Si liberano così della “marcatura” del direttore sportivo romanista Vincenzo Biancone e vanno al consolato argentino. Nella notte salgono su una grossa auto, valigie al seguito, e partono per Santa Margherita Ligure. Quindi passano in treno il confine con la Francia e, da Mentone, in Costa Azzurra, si imbarcano per l’Argentina completando la loro fuga. La Roma si ritrova senza il suo fuoriclasse e i suoi due compagni ad appena due giorni dall’inizio del campionato. Si grida al tradimento, ma non c’è possibilità di rimedio. I giallorossi chiudono la stagione 1935-36 secondi a un solo punto dal Bologna campione d’Italia con mille rimpianti. Con il “Corsaro nero” in campo sarebbe stata tutta un’altra storia.
A distanza di decenni il rimpianto resta grande e sorge un dubbio che, magari, qualche documento nascosto potrebbe prima o poi fugare: perché Guaita, Scopelli e Stagnaro avevano paura di essere arruolati quando nessun calciatore di alto livello, di fatto, ebbe lo stesso timore? Qualcuno potrebbe aver indotto volontariamente nei tre argentini la voglia di andarsene con l’obiettivo di indebolire una Roma fortissima? Non esistono prove di qualche macchinazione, ma non è da escludere, soprattutto in quell’epoca di dittatura, in cui il regime fascista non di rado fu protagonista di giochi sporchi e complotti. La fuga di Guaita e compagni d’altronde, avviene poche settimane dopo l’allontanamento dalla Roma di Renato Sacerdoti, il presidente che aveva portato i tre argentini nella Capitale, costretto a lasciare la poltrona di numero uno per il clima sempre più ostile nei suoi confronti da parte del regime, in quanto di origine ebrea. Nel 1938 Sacerdoti sarà arrestato a causa della sua attività borsistica e condannato a una pesante pena pecuniaria e al confino a Ponza.
Enrique Guaita, dal canto suo, torna a giocare in Argentina nel Racing Club Avellaneda, segnando 14 gol in 30 gare di campionato nel 1936 e 14 gol in 26 gare nel 1937. Poi rientra al suo Estudiantes, con cui segna 8 gol in 23 presenze nel 1938 e un gol in 4 presenze nel 1939. Di lui si perdono le tracce, nel grande calcio, dopo l’ultima partita nel campionato argentino, il 9 aprile 1939, contro il San Lorenzo. Torna anche a indossare la maglia della nazionale argentina, giocando le due gare decisive, contro il Brasile, che permettono all’Albiceleste di vincere la Coppa America del febbraio 1937. Successivamente tenta la carriera di allenatore, lavorando anche in Brasile, e diventa direttore di un penitenziario. Non avrà più modo né voglia di tornare a parlare di quella fuga da Roma del settembre 1935.
Muore a soli 49 anni, a San Nicolas, vicino Buenos Aires, il 10 maggio 1959 a causa di un tumore. L’agonia di Guaita è lunga, combattuta con ogni mezzo clinico e medico, alla ricerca di una soluzione al male che purtroppo non viene trovata. Avrà per sempre un posto speciale nella storia della Roma.