All’indomani della scomparsa di “Piedone” Manfredini ripubblichiamo l’intervista che il nostro Adriano Stabile gli fece nel settembre del 2015, in occasione dei suoi ottant’anni, e che venne pubblicata dal sito Romapost.it.
Manfredini ci accolse a Ostia, claudicante per colpa di un problema a un’anca che avrebbe dovuto operare di lì a poco, ma lucidissimo, sempre attento e fiero. Nel corso di quella chiacchierata emerse, più di ogni altra cosa, la sua voglia di tornare in Argentina, quasi un eden dove ritrovare un’atmosfera ormai perduta nella Città Eterna.
L’accento argentino, la voce stentorea e gli occhi azzurri. All’alba degli 80 anni che compie oggi, Pedro Waldemar Manfredini è un uomo che trasmette carisma, se non un pizzico di soggezione, subito mitigati dalla sua gentilezza. Bomber della Roma dal 1959 al 1965, idolo dei tifosi per i tanti gol fatti (104 in 164 partite ufficiali in giallorosso), Manfredini da una quarantina d’anni vive a Ostia, anche se il suo cuore è ancora a Mendoza, la città dove è nato il 7 settembre 1935. Quando ne parla, l’ex attaccante romanista si illumina: «Mendoza è stupenda, pulita – ci dice in un’intervista esclusiva – ho tantissimi parenti là. A Mendoza è sempre festa, per qualunque motivo: il sabato si va a ballare tutti insieme, la domenica si va alla partita e poi la sera tutti nella bellissima piazza». L’Italia, ormai, non gli piace più come prima: «È tutto sporco, gira la droga, i politici rubano: qui la civiltà è finita».
Come ha scoperto il pallone?
«Noi ragazzini ci giocavamo a Maipú, il rione di Mendoza dove sono nato, perché non avevamo nulla. Il calcio era tutto. Io ho iniziato a otto anni per strada e su campetti improvvisati. Ogni estate si facevano tornei di calcio. Avevo un gruppo di amici, compagni di scuola, con cui ne ho vinti tanti. Venivano a vederci osservatori e allenatori: così è cominciata la mia carriera. Ero già allora un goleador e venni preso dal Deportivo Maipú: una volta feci 11 gol in una partita e i genitori degli avversari mi volevano picchiare».
Faceva anche il panettiere…
«È vero, lavoravo come panettiere a Maipú ed ero anche bravo: a 16 anni avevo già il mio turno di lavoro. Mi piaceva tantissimo».
Tra i suoi primi allenatori c’è stato Raimundo “Mumo” Orsi, oriundo argentino campione del mondo con l’Italia nel 1934.
«È stato come un padre per me. Lo trovai nel Deportivo Maipú quando militavo nella terza divisione delle giovanili. Mi faceva giocare con calciatori di 25-30 anni nonostante fossi un ragazzino. Fu lui poi a portarmi in prima squadra».
Come maturò il passaggio al Racing Club Avellaneda alla fine del 1956?
«Con il Deportivo segnai 38 gol in una ventina di partite (nel campionato di Mendoza del 1956, n.d.r.) e allora si fece sotto il River Plate che era allenato dal cognato di Orsi. Venne a vedere una mia partita con la rappresentativa di Mendoza, ma non andai bene, così esitò e Orsi mi fece andare al Racing».
Come fu il passaggio da Mendoza a Buenos Aires?
«Non facile all’inizio. Andai a vivere da un mio zio vedovo, che lavorava come portiere di un palazzo. Al Racing mi trovai bene: feci tanti gol e vincemmo il campionato argentino (nel 1958, n.d.r.)».
Poi è arrivata anche la nazionale.
«L’Argentina aveva fatto una figuraccia ai Mondiali in Svezia del 1958, perdendo addirittura 6-1 con la Cecoslovacchia, e fui fortunato perché subito dopo ci fu un grande ricambio generazionale e Della Torre, allenatore del Racing, divenne ct della nazionale. Vincemmo il Campionato Sudamericano del 1959: io feci due gol prima di farmi male a causa di un calcione del peruviano Benitez, che poi giocò nella Roma».
E la Roma? Perché venne acquistato dai giallorossi?
«Dopo il Sudamericano del 1959 mi sono sposato e sono andato in luna di miele in Uruguay. Appena rientrato mi arrivò un telefonata del presidente del Racing: “Ci sono qui i dirigenti della Roma – mi disse – devi venire”. Inizialmente non pensavo proprio di andarmene, mi ero appena sposato. Poi ci ragionai con mia moglie, andai a parlare con i dirigenti della Roma e firmai il contratto: non sapevo quanti soldi chiedere. Alla fine chiesi tre milioni al mese, un ottimo stipendio, ma quando sono arrivato qui ho scoperto che avrei potuto chiederne almeno cinque».
I giallorossi come avevano scoperto Manfredini?
«Tramite un ingegnere, intimo amico del presidente della Roma, che chiamò i giallorossi dicendo che c’era un attaccante argentino adatto al campionato italiano».
Il soprannome “piedone” è nato subito, mentre scendeva la scaletta dell’aereo a Ciampino.
«Il viaggio per arrivare a Roma fu lunghissimo: sono partito da Buenos Aires il sabato a mezzogiorno per arrivare qui il lunedì alle 4 del mattino dopo 11 scali. Ad aspettarmi c’era il fotografo Pietro Brunetti, che poi è diventato mio amico, che mi fece la foto dal basso mentre scendevo dall’aereo. Venne pubblicata su “Momento Sera” e diventai “Piedone”: in realtà porto 42. Per una decina d’anni, ovunque andavo, la prima cosa che mi guardavano erano i piedi: quando me lo chiedevano dicevo di portare 46”.
Che tipo di giocatore era Manfredini?
«Avevo un tiro preciso, di destro, e preferivo giocare sulla sinistra. Ero veloce e mi sapevo smarcare. Un tempo, con le marcature a uomo e gli stopper implacabili, non era facile smarcarsi».
Cosa ricorda dei gol nei derby contro la Lazio?
«Era una gioia, ne feci alcuni anche con la Primavera, con cui ogni tanto ci facevano giocare. Ricordo con piacere anche i 6 rigori segnati alla Lazio per decidere una sfida in Coppa Italia (il 25 aprile 1962, n.d.r.)».
Nel 1961 la sua Roma vinse la Coppa delle Fiere (poi diventata Coppa Uefa) e lei fu capocannoniere del torneo con 12 reti.
«Fu magnifico, avevamo una bella squadra. Ricordo la sfida durissima con gli scozzesi dell’Hibernian in semifinale, fu necessario lo spareggio e vincemmo 6-0 con quattro gol miei. Quando feci l’ultimo gol vidi gli avversari venire verso di me: pensavo volessero picchiarmi e invece si complimentarono. Poi in finale, contro il Birmingham, feci due gol all’andata in Inghilterra. Al ritorno vincemmo 2-0, presi il pallone e me lo portai via. Ce l’ho ancora, l’ho regalato a mio nipote».
Di quel 1961 è rimasto nella storia una vostro successo a San Siro, contro l’Inter prima in classifica, grazie a un suo gol.
«Me lo ricordo, era il 31 dicembre. Schiaffino giocò una partita straordinaria in difesa: ci salvammo in svariate occasioni e poi, in contropiede, feci gol a 8 minuti dalla fine. Renato Rascel faceva il Rugantino a Milano, venne nello spogliatoio a festeggiare e lo buttammo sotto la doccia. La sera, con il teatro pieno, uscì sul palco rimanendo in silenzio per cinque minuti, il pubblico iniziò a rumoreggiare finché lui non disse con tono ironico: “Manfredini”. Ci fu un boato, tutti applaudirono. Io e Rascel eravamo amici».
Con quali compagni si intendeva meglio in campo?
«Schiaffino dava dei palloni fantastici mentre Lojacono non si capiva mai se te la passava oppure no. Con Cisco però eravamo molto amici: veniva sempre a salutarmi».
Lei non ebbe un buon rapporto con l’allenatore Luis Carniglia.
«Aveva Lojacono, Angelillo e Jonsson e voleva fare il gioco argentino, pieno di tocchi. Gli feci notare che in Italia non si poteva fare quel gioco, ma lui rischiò, perse tre partite e fu cacciato. Tornò Foni, mi mise in campo subito a Palermo (era il 1° novembre 1962, n.d.r.) e io feci tre gol».
Perché quella Roma, ricca di talento, ha vinto poco?
«Perché siamo a Roma. Il periodo nostro non era facile: il calcio era al Nord. Roma è una città grande e dispersiva, a Milano la realtà era diversa».
Lei fu anche capocannoniere della Serie A nel 1962-63 con 19 reti insieme ad Harald Nielsen del Bologna.
«Sì, all’epoca stavo ancora bene. Poi il ginocchio sinistro ha iniziato a darmi problemi»”.
Che problema aveva al ginocchio?
«Ho avuto un brutto incidente in Argentina, davanti a tutta la mia famiglia: fu colpa di Griffa (Jorge Bernardo Griffa, n.d.r.), un difensore che poi giocò anche nell’Atletico Madrid. Mi fece un’entrata terribile a metà campo. Una volta ci convocarono entrambi nella nazionale argentina ma io dissi: “se chiamate lui io non vengo”. Alla fine scelsero me».
Ancora oggi porta i segni di quell’incidente.
«Non piego più il ginocchio, nei prossimi giorni mi devo operare all’anca sinistra per sistemare una protesi. È nato tutto da quell’infortunio. Quando andai al Venezia, dopo ogni partita, il ginocchio mi si gonfiava e fino al mercoledì non potevo allenarmi. Per fortuna non ingrassavo e non avevo bisogno di allenarmi».
Cosa ricorda della sua ultima stagione da calciatore, in Cile, nel 1969, con il Deportivo La Serena?
«Avevo già smesso di giocare ed ero tornato a Buenos Aires. Incontrai un mio vecchio amico, ex terzino del River Plate, che faceva l’allenatore in Cile, aveva un biglietto in più per Santiago e mi invitò qualche giorno da lui. Sono andato: gli davo una mano con i tiri per allenare i portieri e, durante le partitelle, facevo sempre gol. Tutti mi dicevano che potevo ancora giocare e alla fine disputai il campionato: feci una ventina di gol. Tornavo a casa, in Argentina, ogni settimana con un piccolo aereo Piper: avevo paura, ma l’automobile mi dava fastidio».
Perché non ha mai fatto l’allenatore ad alto livello?
«Non mi piaceva, ho preferito lavorare con i ragazzi. L’ho fatto per tanti anni a Maipú: avevo fino a 88 calciatori la mattina e 120 nel pomeriggio».
Quando ha deciso di tornare a Roma per vivere a Ostia?
«È successo tanti anni fa, venni per giocare una partita tra vecchie glorie e tutti volevano sapere come stava mia figlia Alessandra. Così la feci venire qui e si fidanzò subito con Adriano, il figlio del proprietario dello stabilimento Tibidabo di Ostia, che era mio amico. Da allora non mi sono più mosso altrimenti sarei rimasto a Maipú. Mi sono rovinato la vita (è amaro e ironico contemporaneamente, n.d.r.), lì ho tanti parenti, si sta sempre in compagnia, non come qua».
Le piacerebbe tornare a Mendoza?
«Eccome! Gli ultimi anni sono stati difficili, ma stando là sarebbero veramente un piacere. Mendoza è un paradiso».
Cosa è la Roma per lei?
«Posso soltanto parlare bene della Roma. Sono stato bene e ho trovato tanti amici. Sono stati sei anni belli».
Cosa ha in programma per la festa dei suoi 80 anni?
«Andrò al Tibidabo con la famiglia e gli amici. Mi volevano a Mendoza però non posso viaggiare perché mi devo operare alla gamba. Ma appena starò meglio andrò».
PUBBLICATA SU ROMAPOST.IT – 7 SETTEMBRE 2015