Un muro nella difesa romanista che i tifosi giallorossi ancora ricordano, e rimpiangono, a distanza di decenni: è lo “Zar” Pietro Vierchowod, stopper vecchio stampo, bravo in marcatura, velocissimo nelle chiusure e abile nel gioco di testa. Disputa una sola stagione in giallorosso, ma è quella del secondo scudetto, disputata davvero alla grande da questo difensore implacabile e sempre attento, capace di inserirsi alla perfezione nel gioco a zona di Liedholm. A Pietro Vierchowod rimane il rimpianto di non essere potuto rimanere per più tempo nella Capitale, come avrebbe voluto. Bergamasco di Calcinate, nato il 6 aprile 1959, Pietro è figlio di Ivan Lukjanovic Vierchowod, ucraino di Kiev (nato nel 1914 e scomparso nel 2004), operaio metalmeccanico ed ex soldato dell’Armata Rossa prigioniero in Italia (a Bolzano, Pisa e Modena) durante la Seconda Guerra Mondiale.
Il giovane Pietro Vierchowod cresce nello Spirano (Prima Categoria), passa poi alla Romanese (3 presenze in Serie D), squadra di Romano (un segno del destino…) Lombardo. Nel 1975 passa al Como dove viene lanciato tra i professionisti da Osvaldo Bagnoli. Nel 1978-79 vince il Guerin d’oro come miglior giocatore della Serie C1 alla pari con Carlo Ancelotti del Parma (secondo segno del destino in chiave giallorossa).
Il suo esordio in Serie A avviene il 14 settembre 1980, in Como-Roma 0-1 (terzo segno del destino), la prima in Italia per l’asso giallorosso Paulo Roberto Falcão. Pochi mesi più tardi, il 6 gennaio 1981, debutta in nazionale. Nell’estate dell’81 lo acquista la Sampdoria di Mantovani che però, militando in Serie B, cede Vierchowod in prestito alla Fiorentina. I viola, guidati in panchina dall’ex romanista Picchio De Sisti, danno vita a una strenua per lo scudetto con la Juventus, perdendolo per un punto all’ultima giornata.
La mattina del 23 novembre 1981 Vierchowod torna a Como per sposarsi, nella chiesa di San Provino, con Carmen Gaiani. A festeggiarlo, tra gli altri, ci sono gli ex compagni di squadra del Como Silvano Fontolan e Marco Nicoletti, oltre al presidente dei lariani Mario Beretta e all’allenatore Giuseppe “Pippo” Marchioro. Pietro ottiene qualche giorno di permesso per poi tornare ad allenarsi in vista del big match contro la Juventus, che si concluderà 0-0 a Torino.
Vierchowod è ormai un difensore apprezzato, riconoscibilissimo per quel suo strano cognome, che ognuno pronuncia come meglio crede. Ad esempio Sandro Ciotti, grande radiocronista romano, opta per “Vircvud” con la c morbida e non esita a soprannominarlo il “Russo”. Poi, con il trascorrere di una carriera interminabile, il “russo” diventerà lo “Zar”.
Nell’estate del 1982 matura il passaggio del “Russo” alla Roma: Viola nasconde a lungo la trattativa ai giornalisti, ma l’affare viene chiuso a metà luglio, poco dopo la conclusione dei Mondiali vinti in Spagna dalla nazionale italiana, di cui Vierchowod fa parte, pur senza giocare mai. Ai blucerchiati la Roma dà in cambio Dario Bonetti, anche lui in prestito.
«Sapevo che la Roma mi aveva voluto a tutti i costi – ricorda il difensore bergamasco al Corriere dello Sport del 22 ottobre 2008 – dicevano che per convincere Mantovani era dovuto intervenire Andreotti. Arrivai in prestito, sapevo che qualsiasi cosa fosse accaduta a fine campionato sarei ripartito. Ma fu bellissimo comunque: città splendida, pubblico magnifico. E poi che Roma! Sì, sono sicuro, quella è stata la Roma più forte di sempre. Eravamo un gruppo fantastico guidati inoltre da un allenatore super».
Con lui in campo, al centro della difesa, Liedholm si sente tranquillo e decide così di spostare capitan Di Bartolomei nel ruolo di libero con licenza di offendere. Il “russo”, con la sua velocità, garantisce adeguata copertura e così è l’unico che, secondo i dettami dell’allenatore, non deve mai abbandonare la linea difensiva mentre gli altri difensori possono permettersi qualche sortita in attacco.
«Il Barone ci affascinava con i suoi racconti surreali – il ricordo di Vierchowod alla “Gazzetta dello Sport” del 5 marzo 2005 – Liedholm era molto superstizioso. Sulle maglie, ad esempio. Non potevamo prenderle, doveva consegnarle lui. Una volta, l’ho strappata dal mucchio, tanto sapevo il numero. Mi ha guardato malissimo: “Se succede qualcosa la colpa è tua. Non farlo più, capito?” Un’altra volta mi metto, per sbaglio, il suo cappotto: nelle tasche c’era di tutto. Ma proprio di tutto: sale, ciondoli, amuleti, boccettine, cornetti. Uomo fine e ironico ma credeva a queste cose».
Nella luminosa stagione 1982-83 Vierchowod gioca tutte le partite: sempre affidabile, forte nel gioco aereo, dà il meglio di sé nelle sfide contro l’Inter (2-1, il 12 dicembre 1982) e il Genoa (2-0, il 2 gennaio 1983), ma in tantissime gare di quella stagione si rivela fondamentale. I tifosi si innamorano di lui e della sua bravura.
«La sconfitta contro la Juventus all’Olimpico è stato il momento più brutto – ricorda a fine campionato – ci ha procurato più rabbia che delusione. La sera di quell’incontro (era il 6 marzo 1983, n.d.a.) ero intrattabile. La successiva vittoria di Pisa ci ha dato la convinzione che nulla era perduto. Che anzi quella battuta d’arresto era un caso isolato e irripetibile». Oltre allo scudetto vince, a dimostrazione del suo alto livello di rendimento, il Guerin d’oro come miglior giocatore della Serie A 1982-83 e il Calciatore d’oro come miglior “under 23” di quel campionato. «Che regalo voglio per lo scudetto? Restare un altro anno a Roma», dice al momento della grande festa nel maggio del 1983. Il presidente della Roma Dino Viola tenta di convincere Paolo Mantovani, gli promette di lasciargli Bonetti, ma alla fine il patron della Sampdoria rivuole indietro il suo gioiello.
Amante della pastasciutta, di Franco Battiato, della fotografia e del tennis, il taciturno “Russo”, che a Genova diventa “Zar”, gioca 12 anni nella Sampdoria con la maglia numero 5 vincendo, tra le altre cose, lo storico scudetto del 1991. Condisce quell’esperienza blucerchiata anche con una Coppa delle Coppe, quattro Coppe Italia e una Supercoppa Italiana, vinta nel 1991 proprio contro la Roma, grazie a un gol di Roberto Mancini.
La sua splendida e infinita carriera prosegue fino ai 41 anni in Serie A, grazie all’abnegazione e al suo approccio altamente professionale: lasciata la Samp nel 1995, gioca una stagione nella Juventus, poi passa al Perugia per un paio di mesi (lascia gli umbri per disaccordi con l’allenatore Galeone), quindi al Milan (“sfruttando” l’assenza di Franco Baresi per un infortunio a una caviglia), per poi chiudere con tre stagioni nel Piacenza, disputando l’ultima gara di campionato il 16 aprile 2000.
Ferma campioni come Van Basten e Ronaldo, nonostante affronti l’interista da quarantenne: «Maradona è il numero uno, Van Basten il centravanti più grande», racconterà alla “Gazzetta dello Sport” del 5 marzo 2005.
Si toglie la soddisfazione di vincere una Champions League con la Juventus (da titolare a 37 anni, dopo averla sfiorata con la Sampdoria e non averla potuta disputare con la Roma) e ha l’orgoglio di giocare nel Milan di Berlusconi, anche se in un’annata balorda. In bianconero ha un rapporto cordiale con Gianni Agnelli: «Non mi chiedeva di calcio, era curioso di tutto. Era stato in cavalleria e voleva sapere di mio padre soldato dell’armata sovietica. Della prigionia, del suo lavoro in Ucraina», le parole di Vierchowod alla Gazzetta nel 2005.
E gli rimane sempre nel cuore quell’esperienza scudettata dell’83, così breve ma tanto intensa: «Ricordo l’euforia dei festeggiamenti dopo Roma-Torino – racconta nel 2005 a “Il Romanista” – la città si vestì a festa, con le strisce pedonali dipinte di giallorosso, le statue con le sciarpe».
In nazionale non sempre trova spazio: conta 45 presenze e 2 reti raccolte tra il 1981 e il 1993. Partecipa ai Mondiali del 1982, 1986 e 1990 mentre rifiuta la convocazione di Sacchi per quelli del 1994, perché non vuole fare la riserva. Conta inoltre 12 presenze nella nazionale B.
Successivamente tenta senza successo la carriera da allenatore, guida il Catania (2001-02, subentrato ed esonerato in Serie C1), la Florentia Viola, nata sulla ceneri nella fallita Fiorentina (2002-03, esonerato in Serie C2), la Triestina (2005-06, subentrato ed esonerato in Serie B). Tenta anche all’estero, ma non gli va bene: nel 2014-15 è in Ungheria, alla guida dell’Honved, ma dura soltanto pochi mesi per poi essere sostituito ad ottobre. Nel maggio 2018 è ingaggiato dagli albanesi del Kamza, ma stavolta è lui a rinunciare all’incarico dopo poche settimane, prima ancora di iniziare il campionato.