Un uomo tutto d’un pezzo e un calciatore bravo e sfortunato. Francesco Rocca, con la sua corsa inesauribile, ha sintetizzato al meglio la sua profonda passione per la Roma e per il gioco del calcio, che gli è stata negata precocemente per colpa di un infortunio maligno. Un infortunio che lo ha fatto soffrire per cinque anni prima di farlo arrendere all’evidenza e costringerlo a lasciare il mondo del pallone a soli 27 anni.
Nato il 2 agosto 1954 a San Vito Romano, tifoso della Roma sin da ragazzino, Francesco Rocca si mette in luce giovanissimo nell’Audace Genazzano, prima di finire sul taccuino del Bettini Quadraro, società molto attiva a livello giovanile, che lo prende in prestito. Inseguito a lungo anche dalla Juventus, nel 1970 entra nel vivaio della Roma grazie a Gaetano Anzalone, non ancora presidente giallorosso ma da tempo dirigente addetto alle giovanili. Nella squadra Primavera viene lanciato dal maestro Giorgio Bravi, allenatore di tanti ragazzi degli anni Settanta. Le sue esibizioni al Tre Fontane convincono Helenio Herrera ad aggregarlo alla prima squadra. «E’ il giocatore più rivoluzionario che sia nato in Italia», dirà poi di lui il “Mago”. Mentre si affaccia alla prima squadra fa in tempo a vincere due scudetti con la Primavera (1972-73 e 1973-74) oltre a una Coppa Italia (1973-74).
«Ho potuto esaudire un desiderio e farlo con la maglia della Roma, la squadra per la quale ho fatto e faccio il tifo – il suo ricordo in prima persona, raccontato a Silio Rossi per la rivista Spqr Spor (numero 2 del 2012) – ho iniziato a Genazzano, ho continuato al Bettini Quadraro dove mi portò Lillo Imbergamo, grande scopritore di talenti, e prima della Roma sono passato dall’Ostiense, la squadra giovanile che giocava al San Tarcisio, a due passi da viale Marconi, e che aveva come Presidente Gaetano Anzalone. Quando il ‘dottore’ rilevò la società da Alvaro Marchini mi ritrovai nella Primavera giallorossa. Era il 1970. Avevo sedici anni e compagni di squadra che avevano giocato a grandissimi livelli. I nomi? Peccenini, Di Bartolomei, Piacenti, Sandreani, Vichi, Pellegrini, Quintini. Ero davvero felice perché ero alla Roma. Avvenne tutto velocemente, lo so, e, fulminei furono l’esordio in prima squadra al Torneo Anglo-Italiano, che ogni anno veniva organizzato da Gigi Peronace, e la conquista della maglia giallorossa da titolare e quella azzurra della nazionale. Insomma, mi trovai sulla vetta dell’Everest senza ricorrere alle bombole d’ossigeno».
Esordisce con i “grandi” il 21 febbraio 1973, nel Torneo Anglo-Italiano, contro il Newcastle United (0-2. Rocca gioca con il numero 11 da “ala tattica”) dopo un precedente assaggio positivo in un’amichevole persa 3-2 all’Olimpico con lo Sparta Praga, il 14 gennaio. Quindi Herrera lo butta dentro in campionato a San Siro contro il Milan, con la maglia numero 7, due settimane prima di essere esonerato. E’ il 25 marzo 1973 e poco importa che i rossoneri vincano 3-1. In quel finale di campionato Francesco Rocca gioca altre due volte, con la maglia numero 11, contro Vicenza (0-0) e Palermo (1-1); in panchina c’è Antonio Trebiciani, subentrato ad Herrera e grande conoscitore dei giovani della Roma.
La stella di Rocca inizia a splendere. Nella stagione successiva Manlio Scopigno e poi Nils Liedholm lo schierano sempre in campo. Inizia da mediano, ma è come terzino sinistro che dà il meglio di sé, pur essendo destro di piede. Se un campo da calcio fosse stato lungo un chilometro invece che centodieci metri Francesco Rocca se lo sarebbe fatto di corsa, senza tregua, arrivando alla linea di fondo senza apparente fatica. E’ una vera e propria forza della natura: veloce, rapido, concreto. Studia gli avversari, si allena in maniera maniacale per perfezionare la sua tecnica, che non è raffinata, e migliorare la potenza atletica. Una volta, ricordano gli amici, la sua automobile si ferma a qualche chilometro da San Vito e lui, tranquillamente, arriva a casa di corsa. Ben presto, grazie alla sua velocità, per i tifosi diventa “Kawasaki”. Con la sua maglia numero 3 è il classico fluidificante: attento a difendere, ma velocissimo nel far ripartire l’azione offensiva sulla fascia.
PERNO DELLA NAZIONALE, SEGNA ANCHE TRE GOL. Fuori dal campo ha un appetito impressionante. Ama le uova che gli cucina mamma Emma (il papà invece si chiama Ottavio), è disponibile, allegro, semplice e dà del tu a tutti. Battagliero, indomito e generoso, esalta il pubblico giallorosso. Nei derby lotta soprattutto con D’Amico e Garlaschelli, in avanti offre palle preziose per Prati prima e Pruzzo poi.
Ad appena 20 anni arriva anche in nazionale. L’esordio in azzurro è datato 28 settembre 1974, a Zagabria contro la Jugoslavia, nella prima amichevole dopo il fallimento dell’Italia ai Mondiali in Germania Ovest. In panchina c’è l’ex gloria giallorossa Fulvio Bernardini, incaricato di rifondare la nazionale affidandosi a una nuova generazione di calciatori. Tra i sei debuttanti schierati quel giorno c’è anche Kawasaki, che ha alle spalle soltanto un campionato da titolare nella Roma. Diventa un punto fermo anche in nazionale e l’azzurro diventa il suo secondo amore, dopo il giallorosso. In nazionale segna peraltro uno dei suoi tre gol ufficiali da professionista, il 23 maggio 1976: a Washington l’Italia affronta una Selezione degli Stati Uniti nel torneo per il Bicentenario americano e Rocca sigla il definitivo 4-0 all’84’: ruba palla a un avversario con un tackle, ma stavolta, invece di servire il centravanti di turno, stringe verso il centro e batte il portiere americano Rigby con un preciso diagonale. Segna soltanto altre due reti in carriera, a breve distanza di tempo, in Coppa Italia: il 29 agosto 1976 al Rimini (1-0 per la Roma fuori casa) e il 12 settembre al Brescia (4-1).
FRANCESCO ROCCA E LA STORIA DEI CINQUE INTERVENTI AL GINOCCHIO, GIORNO PER GIORNO
IL GINOCCHIO SINISTRO SI ROMPE, INIZIA IL CALVARIO. Francesco Rocca ha 22 anni, sta imparando persino a fare gol e tocca il cielo con un dito, ma il destino crudele è in agguato. Si fa male il 10 ottobre 1976, in occasione della seconda giornata di campionato contro il Cesena. La Roma vince 2-0, Kawasaki prende una botta a inizio partita scontrandosi con il cesenate Giorgio Bittolo, sente un dolorino al ginocchio sinistro, ma non ci fa caso. Pian piano però il dolore aumenta e Francesco esce malconcio dal campo: l’articolazione si gonfia, passa la notte in bianco. Farebbe meglio a fermarsi, ma il sabato successivo c’è la nazionale: trasferta a Lussemburgo e Francesco vuole esserci.
Il ginocchio gli dà un po’ fastidio, i medici però gli danno l’ok e il 16 ottobre è in campo per il facile 4-1 degli azzurri sui modesti lussemburghesi. Gioca male, torna nella Capitale e tre giorni dopo, il 19 ottobre 1976, durante un allenamento al Tre Fontane, fa uno scatto e i legamenti del ginocchio sinistro si rompono definitivamente. Inizialmente si parla di un semplice problema al menisco, viene operato il 21 ottobre e, durante l’intervento effettuato dal dottor Lamberto Perugia, si presenta una situazione complicata. «La lesione subita da Rocca è più complessa di quanto avevamo previsto – dice il chirurgo all’uscita dalla sala operatoria – oltre al menisco, che è stato asportato, erano interessati i legamenti e la capsula del ginocchio sinistro e c’era un distacco osteo-cartilagineo del condilo femorale interno. Il recupero del giocatore sarà di conseguenza più lungo del normale».
Proprio a Perugia, ironia della sorte, torna in campo il 17 aprile 1977, dopo 6 mesi di stop. A luglio però, durante il ritiro estivo a Norcia, il ginocchio torna a gonfiarsi. Fa svariati consulti medici e si opera nuovamente il 15 settembre a Lione. Il 13 maggio 1978 l’Ansa diffonde la notizia della sua intenzione di ritirarsi dopo aver passato l’intera stagione senza giocare, ma Kawasaki smentisce, si opera nuovamente a Lione il 29 giugno, non vuole mollare. Ritorna in campo il 22 ottobre 1978, a due anni dall’infortunio iniziale. Si parla di un miracolo, viene esaltata la sua forza di volontà. Ha ancora una ricaduta dopo una splendida prestazione a Milano (Inter-Roma 1-2 del 29 aprile 1979) e finisce di nuovo sotto i ferri il 9 maggio 1979. Ritorna a giocare, si illude, ma non dura molto.
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IL MOMENTO PIÙ BRUTTO DELLA SUA VITA. Nel 1980-81 Francesco Rocca scende in campo nove volte tra campionato e coppe, ma il ginocchio continua a gonfiarsi. Il 18 dicembre 1980 si opera per la quinta volta, ma serve a poco: è l’ultimo intervento chirurgico per lui. E’ il segno che bisogna mollare. Va in ritiro con la squadra in vista della stagione 1981-82, i medici però gli fanno capire che non è il caso di continuare. Operato già cinque volte, annuncia l’addio al calcio il 3 agosto 1981: «Per il mio ginocchio ormai non ci sono più possibilità di un recupero serio – spiega quel giorno Kawasaki – e allora, con grande rimpianto, ho deciso di abbandonare l’attività. Ho preso questa decisione e mi sembra che la testa mi scoppi. E’ stata dura ed è dura ancora adesso. Ho avuto anche momenti in cui stavo per ritornarci sopra, ma alla fine ho pensato che è meglio che chiuda definitivamente questa mia tribolata carriera col calcio perché mi sono definitivamente convinto di non poter mai più ritornare quello di una volta. Con questa spada di Damocle sopra di me, non potevo continuare rischiando sempre il peggio. Comunque dico queste cose forzando molto su me stesso perché è il momento più brutto della mia vita, anche più brutto di quella lunga serie di cinque interventi fatti su questo ginocchio sinistro». Gioca l’ultima partita il 29 agosto 1981, disputando 20 minuti dell’amichevole tra Roma e Internacional Porto Alegre, finita 2-2. I suoi tifosi, allo Stadio Olimpico, gli tributano il saluto finae: «Questo pubblico mi ha ripagato di tutte le sofferenze – dice Francesco Rocca uscendo dal campo – ero sicuro che i tifosi mi volessero bene, ma non fino a questo punto». In bacheca ha le prime due Coppe Italia dell’era Viola, nel 1979-80 e 1980-81.
ALLENATORE IN AZZURRO. Lavora per tre anni nella Roma occupandosi del vivaio e il 15 maggio 1983, il giorno di Roma-Torino 3-1, con i giallorossi campioni d’Italia, va sotto la Curva Sud a salutare i tifosi. Lo stadio esplode: quello scudetto doveva essere anche suo. Poi però il rapporto con la società di Dino Viola si logora, vorrebbe continuare a lavorare per la Roma che invece lo molla. Kawasaki si sente tradito. E’ un altro colpo al cuore, ancora più duro dell’addio al calcio giocato. «Sono un po’ introverso – racconta Rocca in un’intervista qualche anno dopo – la solitudine mi affascina, ho sempre risolto da solo i miei problemi nel bene e nel male. Non mi sono mai sentito perduto, ma quella volta sì. Fu terribile». Non lo delude invece l’azzurro, il suo secondo amore. Allena e collabora con quasi tutte le nazionali, dall’under 15, all’Olimpica (che porta a Seul nel 1988) fino alla Nazionale A. Lavora con la federcalcio per oltre 30 anni: è un tecnico duro, che ama il sacrificio e la disciplina. Parla poco, non ama ricordare troppo il passato. Il 20 settembre 2012 è tra i primi 11 giocatori ad essere inserito nella “hall of fame” ufficiale della Roma. «Ho provato una sensazione di stupore, vista la brevità del mio passaggio alla Roma – dice Francesco Rocca quando la società giallorossa gli comunica la notizia – altri hanno giocato anche 10 o 15 anni, io molto meno. Sono rimasto piacevolmente colpito e davvero provo orgoglio e gioia nell’intimo del mio cuore. Me ne viene ridato un pezzo, di questo mio cuore. Ora aspetto di tornare allo stadio per riabbracciare i tifosi, un’emozione che non provo da quasi 37 anni».
Il colore giallorosso continua a battere forte nel suo cuore. Le sue parole lo spiegano in modo perfetto: «Ho amato la Roma da tifoso e poi il calcio perché potevo giocarlo con la maglia della Roma».
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