Difensore della Roma e due volte campione del mondo. E’ Eraldo Monzeglio, grande terzino degli anni ’30, capace di unire tecnica e agonismo come raramente i calciatori sanno fare. Monzeglio è anche bravo nel gioco aereo, nella scelta di tempo e nel far ripartire l’azione con lanci lunghi. Nato il 5 giugno 1906 a Vignale Monferrato (Alessandria), Monzeglio è seguito dalla Roma per almeno quattro anni, prima di essere ingaggiato nel 1935, nella calda estate che si chiude con la fuga degli argentini Guaita, Scopelli e Stagnaro.
Il 26 maggio 1935 Monzeglio firma un contratto triennale con i giallorossi e si mette subito a disposizione per giocare la Coppa Europa Centrale, che inizia tre settimane più tardi. Proveniente dal Bologna, viene ingaggiato dal neopresidente della Roma, Antonio Scialoja, insieme con Gigi Allemandi, prelevato dall’Inter. I due sono i terzini dell’Italia che si è laureata campione del mondo nel 1934: Monzeglio ha ereditato dal grande “Viri” Rosetta la fascia destra, Allemandi invece gioca a sinistra. Proprio il compagno di reparto in azzurro e nella Juventus di Rosetta, Umberto Caligaris, aveva notato la tecnica del giovanissimo Eraldo “raccomandandolo” al suo Casale nel 1923. Giovanissimo operaio nell’Eternit, il 17enne Monzeglio all’epoca gioca ancora nella squadra del dopolavoro.
Dal Casale, dove inizia da centromediano, passa al Bologna a vent’anni, durante il servizio militare. Quando arriva nella Capitale Monzeglio è un giocatore di 29 anni già affermato: oltre al titolo iridato ha messo in bacheca, nel Bologna, uno scudetto (1928-29) e le due Coppe dell’Europa Centrale (1932 e 1934) che hanno reso il club felsineo “la squadra che tremare il mondo fa”.
La prima stagione in giallorosso è la migliore, tanto da arrivare a un soffio dallo scudetto: secondo posto a un punto proprio dal Bologna. L’unica pecca per Monzeglio è che, appena arrivato a Roma, sia in campo nella tremenda disfatta in Coppa Europa, il 22 giugno 1935, quando i giallorossi perdono 8-0 il ritorno della sfida con gli ungheresi del Ferencvaros.
Il 21 febbraio 1937 è protagonista nel male, e poi nel bene, di un derby infuocato. La Roma vince 1-0 con gol di Mazzoni e, a fine gara, scoppia una rissa furibonda: Gipo Viani reagisce a una presa in giro aggredendo l’attaccante romanista Otello Subinaghi. Anche il bomber laziale Silvio Piola, generalmente tranquillo, viene alle mani. Il solo Fulvio Bernardini si adopera per riportare la calma. Ne seguono grandi polemiche con Allemandi che viene accusato di aver colpito vigliaccamente Piola, scatenandone la reazione. Ci pensa Monzeglio a scagionarlo, autoaccusandosi dell’aggressione e scrivendo una lunga lettera al quotidiano sportivo “Il Littoriale”, progenitore del Corriere dello Sport, un paio di giorni dopo il parapiglia. Il gesto viene apprezzato dalla Federcalcio che non lo sanziona. Anche per questo motivo Monzeglio, generalmente un signore in campo, è soprannominato dai tifosi giallorossi “il terzino gentiluomo”. Pochi mesi dopo la Roma vive una cocente delusione in Coppa Italia: i giallorossi arrivano in finale, ma perdono l’ultimo atto 1-0 a Firenze contro il Genoa.
Amico di Vittorio e Bruno Mussolini, di cui è istruttore di tennis e sci sin dai tempi di Bologna, entra ben presto in confidenza con il padre dei due, Benito, il duce. E’ Monzeglio a mettere una buona parola per il compagno di squadra Fulvio Bernardini quando “Fuffo”, con una manovra spericolata in automobile, quasi tampona, per le strade di Roma, la vettura del duce. Eraldo organizza anche un doppio a tennis: lui e Bernardini contro Mussolini e il tennista Flavio Allotti. Ovviamente la raccomandazione di Monzeglio a Bernardini è quella di lasciar vincere la coppia avversaria. Così avviene e il malinteso è dimenticato.
Monzeglio continua proficuamente la sua carriera in nazionale arrivando fino ai Mondiali in Francia del 1938, vinti nuovamente dall’Italia. Titolare nella gara d’esordio (gli ottavi di finale), vinta a fatica 2-1 ai supplementari sulla modesta Norvegia, viene poi escluso. Monzeglio aveva sofferto troppo gli attaccanti norvegesi e alla fine del match il presidente della Federcalcio, Giorgio Vaccaro, chiede spiegazioni al commissario tecnico Vittorio Pozzo sulla scelta della formazione. Il ct azzurro spiega di aver ricevuto pressioni dall’entourage di Mussolini affinché Monzeglio fosse in campo. Vaccaro replica a Pozzo chiedendogli di decidere liberamente e garantendogli la sua protezione. Così Monzeglio è messo da parte per il resto del torneo insieme con Pasinati e Ferraris mentre il titolare della fascia destra diventa l’olimpionico del ’36 Alfredo Foni, scelta che peraltro si rivela azzeccata. Quella presenza contro la Norvegia fa sì comunque che Monzeglio sia l’unico, con Meazza e Ferrari, ad aver partecipato alla conquista dei due titoli mondiali dell’Italia di Pozzo. Le sue gare in nazionale, in tutto, sono 35, raccolte tra il 1930 e il 1938. Oltre ai due titoli iridati vince anche due Coppe Internazionali nel 1930 e nel 1935.
Quella bocciatura dell’estate ’38 gli apre le porte dell’addio al calcio che si consuma dodici mesi più tardi, a conclusione del campionato 1938-39. Curioso il fatto che non riesca a segnare neanche una rete, nelle quattro stagioni giallorosse, tra campionato e coppe. Ma per un terzino come lui non deve essere stato un grande rimpianto.
Appesi gli scarpini al chiodo, rimane alla Roma come direttore tecnico. E’ al fianco dell’allenatore ungherese Alfred Schaffer nella stagione del primo scudetto, il 1941-42: in più di un’occasione si rimette maglietta e calzoncini per partecipare agli allenamenti settimanali della squadra. Grazie ai buoni rapporti con Mussolini riesce a far sì che i giocatori giallorossi richiamati dall’esercito per la Seconda Guerra Mondiale non vengano allontanati troppo da Roma o inviati al fronte. E’ invece proprio Monzeglio a partire volontario per la campagna di Russia, con il massaggiatore giallorosso Angelino Cerretti, perdendosi così la festa per lo storico titolo vinto dalla Roma, nel giugno del 1942.
Al rientro in Italia, Monzeglio è direttore tecnico della rappresentativa dell’Aeronautica (in cui militano campioni come Franzosi, Foni, Ballarin, Locatelli, Ferraris II, Sentimenti III) poi segue la famiglia Mussolini a Salò, ma, dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra, respinge ogni proposta di rivelare i retroscena di quegli anni. Arriva a rifiutare i soldi a palate che gli offre un settimanale per raccontare la sfuriata, a cui assiste, di Rachele Mussolini, moglie del duce, a Claretta Petacci, amante del dittatore.
Nel dopoguerra diventa un apprezzato allenatore alla guida di Como (1946-47), Pro Sesto (1947-49), Napoli (1949-56), Monza (1956-57), Sampdoria (1958-62), ancora Napoli (1962-63), Juventus (1963-64), Chiasso in Svizzera (subentrato nel 1965-66, esonerato nel 1966-67), Lecco (1967-68, esonerato) e ancora Chiasso (subentrato nel 1972-73).
Le cose migliori le fa nel Napoli, che guida per sette anni consecutivi, dal 1949 al 1956, anche perché il presidente Achille Lauro stravede per lui. Sulla panchina partenopea gli subentra, nel gennaio 1956, l’ex romanista Amedeo Amadei, che fino a quel momento era stato ai suoi ordini come calciatore.
Dopo la sua morte, avvenuta la mattina del 3 novembre 1981 a Torino, dopo mesi di malattia, la sua salma viene riportata a Casale Monferrato, per essere poi sepolta accanto alla tomba di Caligaris, altra gloria del calcio locale e scopritore di Monzeglio, “il terzino gentiluomo”.